Sì, sono stata una ragazza fortunata, noi giovani del dopoguerra siamo stati fortunati perché non ci è mancato l’insegnamento, anche da parte dei nostri capi politici, che per noi sono stati dei maestri; da loro abbiamo imparato, innanzitutto, che la democrazia non è tale se non ha profonde radici etiche. E questa lezione è una lezione che non si cancella. Jacques Maritain ha scritto una cosa molto bella: non si può costruire una democrazia se non c’è amicizia. Allora eravamo anche amici, quando pur eravamo avversari.
Se ripenso a quegli ultimi anni Quaranta, e all’inizio del nuovo decennio, alle mie trasferte romane, ai miei studi all’Università di Milano, dove mi sarei laureata, al mio lavoro come maestra nei paesi vicino a Castelfranco, e al mio impegno sindacale, non posso non ricordarne il fervore, l’entusiasmo. E non posso non ripensare al costante dialogo, forse un lascito della Resistenza, dialogo anche accalorato, che caratterizzava i rapporti di noi donne e uomini di partiti e credo diversi.
Come sempre alla base c’era una forte tensione morale, e c’era la convinzione che il dialogo permette a un paese di progredire; eravamo di idee diverse ma insieme volevamo costruire la pace, la libertà, uno stato sociale. E posso dire che grazie a questo dialogo abbiamo superato orrori, ritorsioni, situazioni dolorose, che in altre zone si sono trascinate a lungo dopo la pace.
A Castelfranco, il sindaco della Liberazione fu un avvocato che non sapevamo neanche quali idee avesse. Sapevamo che era antifascista, ma tutto il resto – che era massone, che aveva adesioni nel Partito Repubblicano – l’abbiamo scoperto dopo. è con questo spirito di collaborazione, di ricerca di unità, che ho vissuto i miei esordi come militante del sindacato dei tessili, una delle categorie più forti nella mia zona.
[…] Fu nel mio primo fatidico viaggio a Roma del 1946 che conobbi Alcide De Gasperi e l’impressione che mi fece si riconfermò negli anni successivi, quando, anche per la mia attività di giovane delegata del partito, ebbi modo di incontrarlo più da vicino, di ascoltarlo, di vederlo al lavoro. […] Credeva fermamente nella libertà e nella democrazia, e allorché alcuni settori della Democrazia Cristiana prospettarono di allearsi con i fascisti, al fine di contenere e marginalizzare il Partito Comunista, egli minacciò – e lo avrebbe fatto, seppure con profondo dolore – di uscire dal partito e di fondame uno nuovo. Il DNA democratico non poteva essere iniettato dall’oggi al domani, nessuna ragione di ordine politico, di conservazione del potere, poteva ai suoi occhi giustificare alleanze tattiche, momentanee, con i diretti discendenti di quella dittatura che aveva governato gli italiani e li aveva trascinati in guerra. […]
Ancora una volta in De Gasperi le ragioni della politica non avevano tradito i valori dell’uomo. E questi avevano indirizzato i comportamenti dello statista.
[…] Ancora credo in quei valori e porto dentro di me le parole sulla libertà dell’appassionato intervento di Guido Gonella, che fece un’analisi precisa, senza retorica, sulla quale, a distanza di tanti anni, varrebbe ancora la pena di meditare. Come varrebbe la pena di ricominciare a studiare gli atti che documentano i lavori della Costituente, soprattutto per coloro che con tanta superficialità cambierebbero ogni giorno la nostra Costituzione.
Ebbi, fortunatamente, l’opportunità di conoscere uomini di altri partiti, e di stimarli anche se con loro non avevo la consuetudine e la familiarità, pur sempre rispettosa e consapevole dei ruoli, che avevo con quelli di “casa mia”. Ho ancora nitida la sensazione del timore che provai quando conobbi Togliatti e, tornando con i ricordi al passato, agli uomini e alle donne della prima Repubblica – posso ancora nominarla, la prima Repubblica? – non posso non rimarcare le differenze rispetto alla realtà di oggi.
Anche noi avevamo dei capi, che erano i nostri referenti politici, le nostre guide, ma non rinunciavamo a tenere in considerazione e ascoltare anche i segretari di altri partiti, seppure portatori di idee diverse.
Togliatti aveva certo qualcosa da dire, come del resto si è visto in seguito, e per noi giovani sarebbe stato un errore ignorarlo o, peggio ancora, disprezzarlo. Se non lo avessimo ascoltato perché non la pensava come noi, perché era un nemico, avremmo perduto un’occasione per meglio precisare ed esplicitare la nostra identità.
Quanto ho detto fa emergere l’abisso, lo dico con schiettezza, tra la classe dirigente di allora e quella che sarebbe venuta dopo.
[…] E non lo dico perché i ricordi di quei primi anni del dopoguerra sono legati alla mia giovinezza. È vero che la giovinezza tinge di rosa tante esperienze, e invecchiando è facile essere colti dalla nostalgia per ciò che fu, ma io di natura non sono malinconica, la gioia di vivere mi è sempre stata alleata.
Per meglio far capire, soprattutto ai giovani, il clima di quei tempi, duri ma energici e ricchi di futuro, vorrei raccontare un episodio che si svolse nel mio paese durante la competizione elettorale del 1948.
In un teatro era stato organizzato da noi democristiane un incontro con le donne di Castelfranco, a scopo elettorale; sul palco, tra coloro che dovevano parlare, c’ero anch’io. Ma in platea molte militanti comuniste cercavano di impedire lo svolgimento del dibattito facendo rumore, disturbando, fischiando. Fin ché, ricordo, saltò– proprio saltò! – sul palco la for naia del paese. Era un donnone, pesava più di un quintale, era piena di energia, e rivolta alle provocatrici disse: «Siete delle morte di fame e se non fosse stato per il mio pane, che vi ha sfamato durante la guerra, come sareste sopravvissute? Allora, provate a toccare la Tina e farete i conti con me». Dopo di che potei fare il mio intervento. Fu un incontro molto vivace, e fu il giorno del mio primo comizio. E non posso dimenticare che la fornaia era oltretutto un’importante sostenitrice economica della nostra campagna elettorale. Effettivamente le competizioni politiche, a quei tempi, costavano molto meno di oggi.